Reverendi e cari confratelli Presbiteri, Diaconi e Seminaristi,
La Quaresima che ci apprestiamo a vivere assume quest'anno un significato particolarmente profondo, arricchito dalla celebrazione dell’Anno Giubilare.
Il Giubileo ci invita alla speranza, fondata sulla misericordia del Signore, che desidera riconciliarci a sé e ricondurci al suo amore, donandoci l’opportunità di un autentico rinnovamento spirituale.
La grazia del perdono divino ci esorta anche a riflettere sulla pace, che siamo chiamati a implorare per la Chiesa e per il mondo, impegnandoci personalmente in percorsi di riconciliazione fraterna, superando indifferenze, divisioni e ostilità.
In questo contesto desidero rivolgermi al Presbiterio della nostra Chiesa di Ventimiglia-San Remo e a coloro che si preparano a farne parte.
Per quanto mi è dato conoscere, non vi sono fratture profonde nel nostro Presbiterio dovute a divergenze ideologiche, dottrinali o disciplinari.
Tuttavia, avverto con frequenza una certa fatica nel vivere la fraternità presbiterale.
Vorrei condividere con voi il desiderio e la responsabilità di rafforzare le nostre relazioni, attraverso la preghiera, una vita interiore più intensa e, non da ultimo, un’accoglienza più autentica del dono dell’amicizia.
Non ci siamo scelti, ma è stata la Provvidenza a volerci insieme per formare il Presbiterio di questa Chiesa particolare e per dispensare, con cuore indiviso, la Parola del Signore e i Sacramenti della fede al popolo che ci è stato affidato.
La grazia della fraternità è parte di quel "centuplo" promesso da Gesù a chi lascia tutto per seguirlo (cfr. Mt 19,29). Rischiare di guastare questo dono con pigrizie, giudizi, distanze e recriminazioni significa privare il nostro cuore della pace e della consolazione che scaturiscono dalla vita comune. Come proclama il Salmo 133: "Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme!".
Tradire la fraternità che il Signore ci affida significa anche indebolire la nostra testimonianza evangelica. Gesù stesso, nella sua preghiera sacerdotale, supplica il Padre perché i suoi siano una cosa sola: "Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato" (Gv 17,21).
Dobbiamo essere segno di comunione, soprattutto oggi, in un contesto segnato da competitività aggressiva e conflitti laceranti. Vi sono pericoli insidiosi per il cuore, come l’invidia, il rancore, il giudizio e la superbia, che logorano la vita spirituale e l’impegno apostolico.
Non mi riferisco a manifestazioni eclatanti, ma a una patologia silenziosa che si manifesta nella critica costante, nell'insoddisfazione cronica, nel chiacchiericcio sterile e nella resistenza passiva di fronte a ogni proposta pastorale e spirituale.
Spesso la mancata partecipazione agli incontri del Presbiterio, o una presenza priva di entusiasmo, riflette una tristezza che mi interroga e mi preoccupa.
Mi domando: cosa ha spento il nostro cuore? Il Signore non ci basta più? Abbiamo smesso di gustare il suo amore? Non riteniamo più che valga la pena di spendere la vita per il Vangelo? Ci rendiamo conto del rischio di offrire ai fedeli una testimonianza sbiadita e lamentevole, che anziché edificare li allontana?
Mi addolora, perché sento la bellezza e la responsabilità della nostra comunità presbiterale, e perché sono consapevole delle mie insufficienze, dei miei limiti e delle mie colpe.
Desidero che chiunque si senta ferito, trascurato o non adeguatamente accolto, venga a parlarmene con fiducia, non solo per il nostro rapporto personale, ma per il bene di tutto il Presbiterio.
Mi preoccupa, perché tra i miei doveri vi è quello di difendere la Chiesa dai lupi (cfr. At 20,29) e so che la divisione è opera del Maligno.
Sono convinto che molti dei segnali di fatica e inerzia che avvertiamo siano dovuti ad un'azione malefica volta a indebolire la grazia che ci è stata affidata.
Credo che la cura più efficace sia una rinnovata attenzione alla nostra vita spirituale. A questo proposito, raccomando di vivere, specialmente in questo Anno Giubilare, l’esperienza degli Esercizi Spirituali, possibilmente quelli diocesani, anche come occasione di fraternità.
Inoltre, esorto a compiere piccoli gesti quotidiani che educano il cuore: cercarci, sorriderci, partecipare con gioia agli incontri, stimarci e sostenerci nella verità.
Una precisazione: questa lettera è indirizzata anche ai Seminaristi non perché vi siano particolari problemi nella loro comunità, se non le normali debolezze umane e la necessità di un accompagnamento educativo.
Ho voluto coinvolgerli perché so che talvolta vengono esposti a discorsi poco edificanti sulla comunione presbiterale. Per questo desidero che conoscano il mio pensiero e si impegnino sin d’ora a costruire un’autentica fraternità sacerdotale.
Invito anche i Presbiteri a essere prudenti e responsabili, evitando di trasmettere ai giovani in formazione atteggiamenti e parole che potrebbero minare il loro entusiasmo. Più ancora, li esorto a essere testimoni esemplari di comunione.
Tornerò su questo tema durante la Messa Crismale, il prossimo Giovedì Santo, festa del nostro sacerdozio.
Nel frattempo, vi invito ad ascoltare e meditare una riflessione di don Luigi Maria Epicoco sulla fraternità sacerdotale, con l’auspicio che possa aiutarci a riscoprirne la bellezza e l’importanza.
Concludo con le parole del beato Isacco della Stella, che ci ricorda il valore della carità fraterna:
Dai «Discorsi» del beato Isacco, abate del monastero della Stella (Disc. 31; PL 194, 1292-1293)
La preminenza della carità
“Perché mai, o fratelli, siamo poco solleciti nel cercare le occasioni di salvezza vicendevole, e non ci prestiamo mutuo soccorso dove lo vediamo maggiormente necessario, portando fraternamente i pesi gli uni degli altri? Volendoci ricordare questo, l’Apostolo dice: «Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo» (Gal 6, 2). E altrove: Sopportatevi a vicenda con amore (cfr. Ef 4, 2). Questa è senza dubbio la legge di Cristo.
Ciò che nel mio fratello per qualsiasi motivo – o per necessità o per infermità del corpo o per leggerezza di costumi – vedo non potersi correggere, perché non lo sopporto con pazienza? Perché non lo curo amorevolmente, come sta scritto: I loro piccoli saranno portati in braccio ed accarezzati sulle ginocchia? (cfr. Is 66, 12). Forse perché mi manca quella carità che tutto soffre, che è paziente nel sopportare e benigna nell’amare secondo la legge di Cristo! Egli con la sua passione si è addossato i nostri mali e con la sua compassione si è caricato dei nostri dolori (cfr. Is 53, 4), amando coloro che ha portato e portando coloro che ha amato. Invece colui che attacca ostilmente il fratello in necessità, o che insidia alla sua debolezza, di qualunque genere sia, si assoggetta senza dubbio alla legge del diavolo e la mette in pratica. Usiamoci dunque comprensione e pratichiamo la fraternità, combattendo la debolezza e perseguitando solo il vizio.
La condotta più accetta a Dio è quella che, pur varia nelle forme e nello stile, segue con grande sincerità l’amore di Dio e, per lui, l’amore del prossimo.
La carità è l’unico criterio secondo cui tutto deve essere fatto o non fatto, cambiato o non cambiato. È il principio che deve dirigere ogni azione e il fine a cui deve tendere. Agendo con riguardo ad essa o ispirati da essa, nulla è disdicevole e tutto è buono.
Si degni di concedercela, questa carità, colui al quale senza di essa non possiamo piacere, colui senza del quale non possiamo fare assolutamente nulla, che vive e regna, Dio, per i secoli senza fine. Amen”.
Vi rinnovo il mio affetto, la mia stima e la mia gratitudine.
Vi abbraccio nella comunione che il Signore ci ha donato e vi benedico di cuore.
Sanremo, 5 marzo 2025
Mercoledì delle Ceneri “in capite ieiunii”
✠ Antonio Suetta
Vescovo di Ventimiglia - San Remo